Crisalide: perché dopo la fine di una relazione tendiamo all’autodistruzione?
Renè in Bridget Jones si affogava di alcool e gelato.
La mia miglior amica dei tempi avrebbe speso tutto in shopping.
La mia amica del sud avrebbe speso tutto in cibo, quella del nord in viaggi fallimentari e un’altra ancora si sarebbe scopata chiunque nel tentativo disperato di piacere o cercare un sostituto.
La me di un tempo si sarebbe finta forte e si sarebbe ubriacata per subire tutte le conseguenze della depressione post sbornia.
Avvolte come un bozzo in una coperta umida di lacrime.
Davanti a uno specchio, intente a farsi belle e non prima di aver finito vedersi la voglia di uscire riscivolare sul divano.
Davanti a una vetrina di cibo o di abiti.
Prese dalla frenesia di riempire un vuoto cosmico tra cuore e stomaco.
Siamo meravigliosamente isteriche noi donne.
Adesso me ne stavo lì a contemplare perché quando veniamo rifiutate o chiudiamo una relazione tossica tendiamo all’autodistruzione fisica e mentale.
Almeno durante il primo periodo, poi succede qualcosa.
Mi misi a pensare alle mie relazioni passate, alle mie amiche, ai miei genitori e dopo quasi un’ora mi accorsi che stavo lì immobile, avvolticciolata in una coperta umida di lacrime.
Fu allora che mi venne in mente la Crisalide.
Gli scienziati non sono ancora pienamente sicuri che i bruchi siano consapevoli della loro futura metamorfosi. Tuttavia, ci sono indizi che suggeriscono che potrebbero essere consapevoli del cambiamento imminente, sia attraverso modifiche del loro corpo sia tramite segnali ambientali.
Sentivo i cambiamenti del mio corpo: un giorno in preda all’ansia e all’astinenza che mi stancavano profondamente, il giorno dopo in forze sul lavoro, nello spazio nuovo da dedicare agli studi e ai miei hobby.
Percepivo i mutamenti intorno a me avendo un nuovo tempo per spostare l’attenzione sugli interessi più vari e sulle persone che sembravano improvvisamente più disponibili.
Dopo una relazione chiusa ci sentiamo perse.
Si crea un vuoto in cui perdiamo i riferimenti e mettiamo in discussione qualsiasi sogno o idea futura. Le nostre cellule, i nostri neurotrasmettitori del cervello sono impattati da due sostanze chimiche che giocano un ruolo cruciale e si influenzano a vicenda travolgendo il nostro benessere emotivo: cortisolo e dopamina.
Quando un legame viene spezzato, una presenza viene a mancare, il cortisolo alza i suoi livelli di produzione generando sintomi quali ansia, insonnia, sensazione generale di malessere con la possibilità di influenzare ormoni come la serotonina, coinvolta nella regolazione dell’umore.
La dopamina, stimolata durante un rapporto piacevole, ma anche di adattamento (quando anche in una relazione tossica la sola presenza della persona “amata” ci appaga e ci rassicura nonostante sia anche fonte di stress), improvvisamente nella rottura viene a mancare portando sentimenti di tristezza e perdita.
Questa diminuzione improvvisa può influenzare la motivazione e il sistema di ricompensa del cervello, rendendo difficile trovare piacevoli altre attività.
Quindi tentiamo di trovare conforto alzando i nostri livelli di piacere con cibo, alcool, sesso, shopping e poi ricadiamo in quel vuoto in cui nulla è più come prima.
In quel momento tra morte della relazione e rinascita ci si sente senza passaporto.
Senza storia.
Senza passato.
In quel momento di stasi autodistruttiva ci si sente come chiuse in un bozzo. Incomprese e inconsce di cosa accade all’esterno.
Chiuse in se stesse e sballottate dal vento, rischiando di cadere a terra ed essere calpestate. Un bozzo forse inconsapevole di cosa sarebbe diventato e dove sarebbe andato.
Ma allora ci autodistruggiamo per distruggere tutto quello che è stato?
Per eliminare tutto ciò che ci legava a lui e tenere solo noi?
Noi, quelle che siamo diventate anche dopo quell’esperienza. Inconsapevolmente forse ci autodistruggiamo per arrivare a un punto di svolta.
Il punto in cui diciamo “Basta, mi sto riducendo male e lui magari è già in giro a spassarsela”.
E lì, in quel punto in fondo al burrone, per la prima volta alzi la testa e ti rendi conto che si vede il cielo.
Sai che sarà faticoso risalire, ma respiri.
Allora lasciatemi dire una cosa.
Quando arriviamo a quel punto di svolta, la maggior parte di noi si mette a tentare di salire.
Sale e scivola.
Sale e scivola. Sale e scivola.
A volte si rompe un braccio e il tentativo seguente deve attendere.
A volte chi è più allenato arriva in cima.
Ma serve davvero fare così tanta fatica?
Se quando siamo arrivate in fondo e ci rendiamo conto che siamo totalmente inermi e svuotate, non sarebbe bene avvolgersi in quella crisalide e riposarsi?
Attendere?
Ho riflettuto molto osservando la calma degli yogi, la dedizione all’immobilità e al silenzio nel Vipassana, ricordando le sensazioni di quando uscivo da un ashram o da un tempio, e sono arrivata alla conclusione che nonostante tanti cambiamenti costruttivi, svolte, crescite, ecc… il vero mutamento profondo volto alla serenità l’ho sentito lì.
Nell’attesa.
Allora ho pensato che forse ci autodistruggiamo per arrivare sfinite a dire “Basta”, “Ora penso a me!”. E se in quel “penso a me” ci attaccassimo un bel cartello con scritto “non disturbare” e lasciassimo che le emozioni e le idee strane si mettessero in stand by per 6 mesi, 1 anno?
“Le rovine sono un dono e la distruzione è la via della trasformazione” (Mangia, prega, ama).
Allora forse come crisalidi ci sveglieremmo una mattina, stiracchieremmo con grande sorpresa un paio di eleganti ali nuove e senza fatica alcuna potremmo, semplicemente, volare!
O forse… sono solo pippe mentali di una donna.